L’intervista alla presidente onoraria dell’Arci tratta da “Un altro mondo è inevitabile” (Futura editrice), il racconto delle grandi mobilitazioni in Italia nel biennio 2001-2002, nel nome dei diritti e della crisi ambientale
La questione ambientale è al centro delle mobilitazioni oramai da vent’anni. Ci ha molto colpito, in occasione delle celebrazioni dei cinquant’anni de il manifesto e di quelle in memoria di Lucio Magri, riscoprire quante delle riflessioni oggi al centro dell’attenzione fossero già presenti all’inizio degli anni Settanta. Ci racconti di quelle prime esperienze?
Non fu facile, all’inizio degli anni Settanta, prendere atto del fatto che la Terra fosse minacciata di estinzione.
Non se ne era mai parlato. O, se sì, lo aveva fatto solo qualche scienziato, che aveva scarsa attitudine a comunicare. In Italia il primo ad occuparsene, traendone qualche considerazione sociopolitica, fu un illuminato gruppo di intellettuali animato dall’ingegner Peccei, che si riunì in un piccolo organismo chiamato Club di Roma, ignorato anche da noi di sinistra. Le scoperte successive, almeno per me, furono molto casuali. Era l’epoca, all’inizio degli anni Sessanta, in cui avevamo cominciato a mettere il naso oltre i con[1]fini e a interessarci in particolare dei sociologi americani. E così scoprimmo al di là dell’Atlantico un personaggio importante, Barry Commoner, autore del primo libro di ecologia da me letto, così come da molti della mia generazione. È a partire da qui che si formarono i primi gruppetti di ecologisti che, comunque, non si sognarono di chiamarsi verdi. Commoner era un militante della sinistra americana: perciò ci incuriosì. Quasi contemporaneamente, e per caso, in occasione di non ricordo quale viaggio a Mosca, incontrai Giuliano Gramsci, il più piccolo dei figli del nostro Antonio, sempre vissuto in Unione Sovietica. Fui molto meravigliata: andava per i boschi e lungo i fiumi con un po’ di amici alla ricerca delle stranezze della natura, e aveva afferrato il senso e l’importanza della biodiversità. Diventò più tardi un vero ecologista, uno dei primissimi in Urss. Fu solo dopo il ’68 – data decisiva, perché è allora che ci si aprì la testa – che cominciammo a capire la dimensione politica dell’ambientalismo. E sono fiera di aver fatto parte di un gruppo, il manifesto, che ne cominciò a scrivere sulla propria rivista, e in seguito a parlarne nei congressi del piccolo partito, il Pdup, che a partire da quell’esperienza politica nacque nel 1974. Presi in giro dalle altre formazioni della nuova sinistra, che ci accusarono di essere reazionari romantici, che avrebbero voluto tornare alla tranquilla vita pastorale rinnegando la modernità. Sul quotidiano Lotta Continua, nell’articolo a commento del nostro congresso del ’73, il suo autore Guido Viale appose come titolo: «Come era verde la vostra vallata». Non parliamo del Pci: nemmeno al suo XVII Congresso nel 1986 riuscimmo a far passare una mozione contro l’energia nucleare presentata da Fabio Mussi. Pesava ancora gravemente la cultura tradizionale del movimento operaio: l’industrialismo e il mito del progresso eterno e senza qualificazioni. Non a caso, eroe del giornaletto che negli anni 60 il partito pubblicava per i bambini – il Pioniere (una sorta di Corriere dei Piccoli di sinistra) – era Atomino, un bambino con una grande testa a forma di atomo, che era riuscito a far crescere le rose nei ghiacci della Siberia.
Quando allora si riuscì a far entrare nelle rivendicazioni classiche della sinistra la questione ambientale?
Le cose cominciarono a cambiare, proprio sulla base di una spinta politica che conquistò i più giovani, inizialmente in rapporto con la questione nucleare. Furono i giovani della nuova sinistra e della Fgci che animarono le prime concrete battaglie contro le centrali che si volevano installare in Italia e, più tardi, contro i missili: i Pershing, i Cruise, gli Ss-20. È in quel contesto che si sviluppò il grande movimento pacifista europeo degli anni Ottanta.
Contemporaneamente, soprattutto in Germania, dove il movimento ebbe subito dimensioni politiche ragguardevoli, cominciarono a fiorire i partiti verdi. Da quel momento quel colore entrò ufficialmente nel dibattito politico, con grande perplessità dei più anziani, affezionati esclusivamente al «rosso». Ricordo ancora la mia titubanza quando decisi di rompere il silenzio che copriva nei convegni di più alto livello la questione ecologica e decisi, nel 1984, di affrontarla esplicitamente nella mia relazione al seminario che annualmente si teneva a Cavtat in Jugoslavia, riunendo il meglio dell’intellettualità marxista del mondo: Paul Sweezy, Paul Baran, Samir Amin, Günter Frank.
Il titolo era «Il verde componente essenziale del rosso». Nel testo, un’attenta ricerca di quanto Marx aveva scritto sul rapporto fra l’uomo e la natura, molto di più di quanto io stessa immaginassi. Ricordo che mi impegnai in quella rilettura quasi per «coprirmi» con la sua autorità dall’ironia dei più anziani.
Credo vada dato atto a Lucio Magri – e giustamente lo citate perché in Italia fu il primo, e a lungo il solo – di aver dato al problema ecologico una dimensione teorica e una collocazione politica adeguate all’importanza che ha poi via via acquisito nei decenni successivi. Lo fece nel dibattito su successi e limiti del riformismo comparso sulle pagine de il manifesto, cui parteciparono esponenti del più alto livello di tutto l’arco della sinistra, un fantastico esempio di cosa era allora la qualità della politica.
È a metà degli anni Settanta che si innescò in Italia un lungo processo di presa di coscienza, nella prima fase molto centrato sul problema del nucleare civile e militare, che aveva animato un grande movimento contro le prime centrali programmate e poi contro l’installazione dei missili. È in questo contesto che nasce, in seno all’Arci, la Lega Ambiente, animata da un’ala di sinistra che abbracciava la semi-dissidenza del Pci, la nuova sinistra, un vasto schieramento di giovani scienziati, fra cui vorrei ricordare Laura Conti, perché la più importante e insieme la più dimenticata.
Come si declinò in Italia la militanza ecologista?
Solo in Italia gli ecologisti non si chiamarono verdi, un partito con quel nome comparve solo tardi e non raccolse mai il grosso del movimento. Perché – l’Italia è stata sempre bizzarra – le prime organizzazioni, e fra queste la più grande, la Lega Ambiente appunto, ebbe la sua culla in una corposa frangia rossa. Da allora la cultura ecologista si è certamente arricchita e diffusa, ma sempre troppo poco rispetto alle proporzioni e alla velocità dei cambiamenti climatici nel frattempo intervenuti. E sempre più ha finito per caratterizzarsi come questione che conquistava l’attenzione delle giovani generazioni, assai poco quelle più anziane, così come la sfera della politica istituzionale. Per molti versi era anche naturale: trarne le necessarie conseguenze politiche era difficilissimo, perché, si voglia o no, significava – e significa ancora oggi – mettere in discussione il meccanismo fondante del sistema capitalista, cui la continua espansione produttiva è intrinsecamente legato. Progettare una società che si impone di produrre meno beni materiali, e dunque di puntare a una profonda trasformazione dei consumi, dei modi di vita e dei valori, significa ipotizzare una rivoluzione di dimensioni senza precedenti. E colpire il potere che attualmente gestisce la nostra società, il suo profitto, ma anche, nell’immediato, l’occupazione. La resistenza a prendere atto delle dimensioni del problema è comprensibile e rende la battaglia ecologica, come già vediamo, difficilissima. Perché è vero che la malattia della Terra insidia la vita di tutti, ma per una lunga fase, se non si riesce subito a cambiare l’indirizzo della transizione, si rischia di arrivare a una società in cui i pochi ricchi si proteggono, gli altri vengono esposti al peggio. Si tratta dunque di condurre una battaglia assai complessa per ottenere che ogni mutamento del modello di sviluppo in senso ecologico sia accompagnato da un corrispondente adeguato complesso di misure che rendano sopportabile il mutamento che si impone.
E il ruolo del sindacato in tutto questo?
Per il sindacato è difficilissimo, tanto più che si trova a dover combattere contro una campagna di disinformazione senza precedenti, tesa per un verso a minimizzare i rischi previsti, anzi a ridicolizzare come insopportabili Cassandre chi cerca di informare, e per l’altro verso a mettere in discussione la validità delle misure alternative proposte, oppure a proporne di meno severe, ma inutili: è il caso dell’ormai famoso greenwashing.
Una delle prime rivendicazioni che bisognerebbe avanzare riguarda l’informazione: anzi di più, la costruzione di una cultura oggi quasi sconosciuta, rendendola obbligatoria in tutti i gradi dell’apprendimento scientifico. Un impegno tanto più difficile se si pensa che con il passare dei secoli gran parte dell’umanità è approdata a una vita sempre più distante dalla natura, della cui essenzialità è lontanissima dal percepire l’importanza. Il cambiamento necessario si carica dunque sull’asse della scuola e, assieme a essa, sul ruolo del sindacato.
Occorre grande coraggio per dire:
– non mi batto più perché questo tipo di lavorazione nociva venga preservata, malgrado mi garantisca l’occupazione di mille operai, e invece apro una vertenza affinché venga investito il capitale in un nuovo settore che produca energie rinnovabili;
– per imporre di investire le risorse nella riorganizzazione della sanità, anziché nella moltiplicazione di migliaia di prodotti superflui esposti nei supermarket e ossessivamente propagandati alla tv;
– per ottenere più servizi di cura che, poiché non realizzano profitto come la produzione di centinaia di tipi diversi di merendine, vengono disertati.
Significa insomma ricostruire la graduatoria di cosa e quanto rende felici e gettar via il Pil come un inutile e dannoso misuratore della ricchezza di un paese. Significa riparare, anziché buttare e produrre consumando altre materie prime che la Terra non ci può più dare, e dunque ripensare il lavoro, perché solo reinventando i lavori si potranno davvero di[1]fendere quelli che ne hanno bisogno per vivere.
Occorre, quindi, un grande salto culturale e di lotta?
Sì, un salto che è anche difficile. Per questo bisogna anche spiegare ai tanti ragazzi che giustamente seguono Greta che non basta andare in piazza, sebbene sia comunque molto utile, ma occorre anche aprire delle vertenze, fare rete fra soggetti e organizzazioni diverse per essere più forti, progettare con fantasia. Significa fare la rivoluzione. Da tempo del resto sappiamo che la rivoluzione non è la conquista di Palazzo Chigi, come fu nel 1917 la conquista del Palazzo d’Inverno. È una rivoluzione che richiede un per[1]corso prolungato, ma è una rivoluzione la sola cosa che ci può salvare. Con una differenza: un tempo c’era chi voleva fare la rivoluzione e chi invece non voleva. Adesso è inevitabile, la questione ecologica ci dice che è indispensabile, non è più una scelta. La scelta è solo fra impegnarsi a ripensare il mondo, oppure cadere in un mondo imbarbarito in cui ci si dovrà azzannare per strapparsi il poco che è rimasto. Certo, accettare questa ipotesi è più facile per quelli che la rivoluzione l’avrebbero sempre voluta fare, più difficile per quelli che hanno sempre avuto paura di qualsiasi cambiamento, anche se rischiavano di perdere poco.
Quindi l’ecologia è di sinistra?
Certo, oggi più che mai l’ecologia è di sinistra. Come le energie rinnovabili, che infatti vengono combattute con astio e si cercano tutte le scuse per non sostituirle al petrolio. Sono di sinistra perché sole, vento e acqua non si possono privatizzare. Un bel guaio per chi fonda tutto sul profitto. E in realtà non occorre neppure affidarsi ai privati per distribuirle: non per tutto, ma per i bisogni essenziali almeno ognuno può prenderseli da solo, insieme ai suoi vicini di casa, creando una comunità energetica. Con buona pace dell’Eni, che preferisce aumentare i dividendi dei suoi azionisti continuando a usare gas e petrolio. Che rischiano persino di riportarci alle guerre mondiali.