Sinistra italiana è fra i partiti che condividono e sostengono la campagna “Riprendiamoci il comune” https://www.attac-italia.org/riprendiamoci-il-comune-2/
Presentazione della campagna Riprendiamoci il Comune
1. Cos’è il Comune?
Il Comune è l’ente locale che rappresenta la comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo e la coesione sociale. Per le sue caratteristiche di centro abitativo nel quale si svolge la vita pubblica dei suoi abitanti, viene definito come il luogo della democrazia di prossimità.
Il termine “Comune” ha origine dalle omonime istituzioni post-feudali (XI – XIII secolo) ma affonda le radici nella polis, la città-stato dell’antica Grecia.
Questa è la definizione ricorrente nei dizionari, nei quali peraltro si sottolinea come la parola “comune” definisca il contrario di quello che è “privato”.
La Costituzione italiana riconosce questo ruolo ai Comuni, stabilendo all’art. 118 che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza”.
I Comuni hanno sempre esercitato un ruolo fondamentale, al punto che per un lungo periodo, a cavallo fra l’ultimo decennio del XIX secolo e i primi due decenni del XX secolo, nel nostro Paese si afferma il “socialismo municipale”, attraverso l’acquisizione da parte dei Comuni di prerogative di governo del territorio organizzate in vere e proprie aziende pubbliche, le famose “municipalizzate”.
Dentro queste esperienze, l’esercizio diretto dei servizi si collega alla realizzazione di istanze più generali, legate ai bisogni crescenti che si affermano tra i cittadini degli strati sociali più bassi, ai quali, dentro un’ottica egualitaria e redistributiva, si risponde attraverso l’avvio di una politica di spesa sociale sostenuta anche dagli utili creati dalle imprese municipalizzate.
Un ruolo e un protagonismo dei Comuni che, non a caso, verrà indicato come nemico giurato quando, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, si afferma la dottrina liberista e si apre la stagione delle privatizzazioni.
Da quel momento, ruolo e funzione dei Comuni vengono messi in discussione e trasformati profondamente.
2. Strangolare il pubblico per poter dire che non funziona
Nel 1999 entra in vigore il Patto di Stabilità e Crescita interno, ovvero le diverse misure, annualmente stabilite, per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria, definiti dallo Stato in accordo con l’Unione Europea, in seguito all’approvazione del Trattato di Maastricht (1992) e del Trattato di Amsterdam (1997).
Siamo nel pieno della stagione liberista e la stabilità finanziaria definita dai vincoli di Maastricht diviene il dogma cui tutto può e deve essere sacrificato.
Il patto di stabilità nella prima fase ha inciso soprattutto sulla riduzione del personale, provocando nel decennio 2000-2010 la perdita di oltre 50mila occupati nel solo settore degli enti locali; nella seconda fase ha preso di mira le capacità d’investimento degli enti locali, fino al loro totale azzeramento nel triennio 2008-2010; nella terza fase, il combinato disposto dei drastici tagli ai trasferimenti da parte dello Stato (‘spending review’) e della contrazione della spesa corrente, hanno ridotto le capacità d’intervento dei Comuni ai minimi termini.
Fino al paradosso finale: nonostante la quota parte di debito pubblico attribuibile ai Comuni corrisponda solo all’ 1,5%, il contributo richiesto agli stessi -tra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità- è passato dai 1,65 mld del 2009 ai 16,655 mld del 2015 [1].
Entrate tutte finalizzate alla stabilità dei conti e spese ridotte all’osso sia sul fronte dei servizi sia sul fronte degli investimenti: ecco come è stato reso concreto il luogo comune “il pubblico non funziona”.
Senza neppure conseguire la famosa stabilità finanziaria, come si evince dalla situazione dell’indebitamento, che rappresenta un ulteriore paradosso: nonostante l’esiguità del debito in capo agli enti locali, quel debito, per quanto basso in valori assoluti, sta letteralmente strangolando, grazie ad interessi da usura, moltissimi enti locali, in particolare i più piccoli.
In media, l’onere complessivo del debito raggiunge il 10% delle spese correnti comunali. Considerando gli enti fino a 10 mila abitanti ed escludendo i territori delle Regioni a statuto autonomo del Nord, circa 2.130 Comuni (30%) registrano un onere complessivo del debito superiore al 12% della spesa corrente; di questi, 727 enti (10%) superano un’incidenza del 18% sulle rispettive spese correnti.
Grazie al Patto di Stabilità e Crescita, ora sostituito dal pareggio di bilancio, e alla costruzione artificiale della trappola del debito, si è dissodato e arato il terreno, finanziario e culturale, per seminare la stagione delle privatizzazioni.
E il raccolto è stato più che fruttuoso, con una costante penetrazione del privato nella gestione dei servizi comunali, attraverso le forme del Partenariato Pubblico-Privato (PPP).
Secondo il rapporto IFEL 2020[2], nel nostro Paese, si passa da 330 bandi di PPP e un importo di 1,3 miliardi del 2002 a 3.794 bandi e un importo di 17 miliardi nel 2019.
In tale mercato l’81,1% dei bandi è in capo ai Comuni, a cui corrisponde un valore pari al 38,3% degli importi complessivi. Nel periodo considerato, il 73% dei Comuni italiani ha avviato progetti di PPP, cifra che raggiunge quasi il 100% se consideriamo i Comuni con più di 10mila abitanti.
3. La Cassa sottratta
In questo processo, ha giocato un ruolo di primo piano la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti, l’ex-ente di diritto pubblico che gestisce il risparmio postale -280 miliardi- di oltre 20 milioni di cittadini.
Dalla sua istituzione, nel 1850, e per oltre un secolo e mezzo, Cassa Depositi e Prestiti ha avuto un unico compito di enorme utilità sociale: raccogliere e tutelare i risparmi dei cittadini e utilizzare questa enorme massa di denaro per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali.
Fino al 1990 questa era l’unica ed esclusiva modalità di finanziamento cui i Comuni potevano accedere.
L’avvento delle politiche liberiste investe in primo luogo tutto il sistema del credito e in breve tempo l’intero sistema bancario del Paese viene privatizzato. A quel punto le banche private premono sui governi per poter entrare dentro un enorme mercato da cui erano escluse: gli investimenti degli enti locali.
E’ così che, a partire dal 1990, si apre la possibilità ai Comuni di accedere al mercato per potersi finanziare, per arrivare, nel 2003 alla trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in Spa, modificandone profondamente natura e missione.
Da quel momento, Cassa Depositi e Prestiti dismette i panni di soggetto pubblico al servizio dei Comuni e diviene un soggetto di mercato che compete con le banche.
I finanziamenti degli investimenti degli enti locali diventano normali operazioni con tassi di interesse stabiliti dal mercato -ancora oggi i Comuni sono gravati da mutui accesi due-tre decenni fa, con tassi di interesse divenuti da “usura”- e, quando parte la stagione della dismissione della ricchezza collettiva in mano ai Comuni, Cassa Depositi e Prestiti si trasforma in partner dei Comuni nella “valorizzazione” del patrimonio pubblico in vendita e in leva finanziaria per la privatizzazione dei servizi pubblici locali favorendo i processi di aggregazione e accentramento nelle multiutility collocate in Borsa.
4.C’è chi dice sì e chi resiste
Il combinato disposto dei processi sopra descritti ha portato i Comuni verso il collasso finanziario: già nel 2019, ben 1083 Comuni su un totale di 7904 (uno su sette) erano in condizione di dissesto o pre-dissesto finanziario. La pandemia ha fatto il resto, moltiplicando le spese che i Comuni hanno dovuto affrontare per poterla contrastare e riducendo drasticamente le entrate, in seguito alla sospensione della riscossione di molte delle imposte locali.
Il buco nelle casse comunali si è così accresciuto di altri 22,8 miliardi di euro.
Alle condizioni oggettive della situazione finanziaria dei Comuni sopra descritte, vanno aggiunte anche le condizioni soggettive degli amministratori locali che, nel tempo si sono profondamente trasformate: le generazioni di sindaci, assessori e consiglieri comunali cresciuti nei decenni della narrazione neoliberale hanno in grandissima parte interiorizzato la cultura delle privatizzazioni, per cui la loro capacità di resistenza a questi processi si è quasi azzerata, e la grande maggioranza di loro si è trasformata in entusiasti fautori del “nuovo” corso.
Ma la resistenza è arrivata dagli abitanti e dai territori e, nel pieno della stagione liberista, un fortissimo movimento per la ripubblicizzazione dell’acqua, poi costituitosi in Forum italiano dei movimenti per l’acqua, non solo nel 2007 è riuscito a raccogliere oltre 400.000 firme in calce ad una legge d’iniziativa popolare, ma nel 2011 ha portato a casa uno straordinario risultato, vincendo un referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali e per una loro gestione, a partire dall’acqua, fuori dalle logiche del mercato e del profitto.
5. Privatizzazioni obbligatorie
Con la vittoria referendaria dei movimenti per l’acqua, la narrazione liberista scopre di non poter più fare affidamento sul consenso e deve quindi riaprire la stagione delle privatizzazioni attraverso l’imposizione autoritaria: nasce da qui lo shock del debito pubblico, agitato solo due mesi dopo la vittoria referendaria con la famosa lettera che, nell’agosto 2011, l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e l’allora Presidente della Banca Centrale Europea Jean Claude Trichet scrissero al governo italiano e nella quale, al proposito, lanciarono il diktat : “(..) E necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforma, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”
Una politica pervicacemente perseguita anche oggi, dapprima con il tentativo -fallito- di far approvare un Ddl Concorrenza che obbligava i Comuni alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, e successivamente con i decreti applicativi dello stesso che tentano di far rientrare dalla finestra ciò che è stato respinto dalla porta.
Dietro questi tentativi vi è la definitiva trasformazione e annichilimento del ruolo dei Comuni: da luoghi della democrazia di prossimità e garanti dei diritti universali attraverso l’erogazione di servizi pubblici, in enti il cui unico compito è quello di mettere sul mercato beni comuni, servizi pubblici e ricchezza collettiva.
6. Riprendiamoci il Comune
Uno dei tanti insegnamenti messi in evidenza dalla pandemia è la necessità di una nuova centralità degli enti locali come fulcro di un diverso modello di società, socialmente ed ecologicamente orientata.
Abbiamo davanti a noi importanti sfide dettate dall’enorme diseguaglianza sociale e dalla drammatica crisi climatica in corso. La pandemia ci ha dato una certezza, oltre ogni ragionevole dubbio: il mercato non funziona, non protegge, separa persone e comunità.
É ora di aprire una nuova stagione ribelle.
Una stagione dentro la quale le comunità locali mettano in campo una lotta senza quartiere per la riappropriazione sociale di tutto quello che appartiene alla collettività e va sottratto al mercato.
Una stagione che non è data automaticamente, ma necessita di una nuova alfabetizzazione popolare sul significato di comunità, beni comuni, democrazia di prossimità.
Una stagione che rimetta insieme le persone e faccia comprendere la necessità di superare la solitudine competitiva come orizzonte voluto dal mercato e le faccia approdare alla cooperazione solidale e alla rivoluzione della cura, di sé, degli altri e delle altre, dei beni comuni.
7. Una campagna e due leggi d’iniziativa popolare
Nasce da queste riflessioni la campagna fondata su due leggi di iniziativa popolare, la prima per una radicale riforma della finanza dei Comuni e la seconda per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti.
Sono due proposte di legge complementari, che ridisegnano il ruolo dei Comuni e il protagonismo delle comunità locali.
La prima proposta di legge riforma la finanza locale, contrapponendo al pareggio di bilancio finanziario l’obiettivo per i Comuni di raggiungere il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere. Afferma la necessità dell’equilibrio finanziario, ma si oppone all’ossessione del pareggio di bilancio, cui tutto deve essere sacrificato, a partire dalla svendita del patrimonio pubblico, dei beni comuni e dei servizi pubblici. Prevede la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte fondamentali dei Comuni e all’utilizzo ecologico, sociale, culturale e ricreativo dei beni pubblici. Trova le risorse necessarie fuori dai mercati finanziari e dentro Cassa Depositi e Prestiti, ente a cui vengono conferiti i risparmi (280 miliardi) di oltre 20 milioni di abitanti.
La seconda proposta di legge chiede la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, attraverso la sua trasformazione in un ente pubblico che operi, in maniera decentrata e partecipativa, al servizio delle comunità locali, come leva finanziaria fuori mercato per gli investimenti relativi al riassetto idrogeologico del territorio, alla sistemazione degli edifici scolastici, alla riconversione energetica degli edifici pubblici, alla gestione partecipativa dei beni comuni, al riutilizzo abitativo e sociale del patrimonio pubblico, alla mobilità sostenibile, alla trasformazione ecologica della filiera del cibo e delle attività produttive. Prevede che le scelte di destinazione dei risparmi dei cittadini siano fatte attraverso la partecipazione degli stessi.
Due proposte di legge che, intervenendo su due contraddizioni sistemiche dell’attuale situazione dei Comuni, provano a rispondere a due domande fondamentali: quali devono essere gli obiettivi e le modalità decisionali di un Comune? Attraverso quali risorse e con quali modalità un Comune si può finanziare?
Due proposte di legge che propongono una visione radicalmente alternativa alla solitudine competitiva del modello liberista.
Immaginiamola attraverso un esempio. Una comunità territoriale, grazie al bilancio partecipativo, sceglie democraticamente le priorità d’intervento tra le opere da realizzare nel proprio territorio.
Le opere scelte -un asilo nido, un parco, un incubatore di imprese innovative, la messa a norma degli edifici scolastici, la sistemazione idrogeologica del territorio, la ristrutturazione della rete idrica etc.- vengono finanziate attraverso il risparmio dei cittadini, depositato in libretti postali e buoni fruttiferi e consegnato alla Cassa Depositi e Prestiti territoriale. Poiché questi risparmi hanno un rendimento minimo, la Cassa Depositi e Prestiti territoriale potrà finanziare gli interventi con un tasso altrettanto minimo.
La comunità territoriale, proprio perché ha partecipato direttamente alle scelte sulle priorità d’intervento e le ha finanziate con il risparmio dei propri membri, avrà una naturale propensione a controllare che tempi e qualità delle opere realizzate siano le migliori possibili, evitando di per sé sprechi e corruttele.
Avremmo così ottenuto: un aumento della partecipazione e della democrazia basata sull’autogoverno; la realizzazione di opere che abbiano come finalità l’interesse generale; la possibilità di finanziarne la realizzazione fuori dal circuito speculativo del mondo bancario e finanziario; l’aumento del controllo democratico sulle procedure e i lavori di realizzazione, con la conseguente diminuzione di corruzione e sprechi; un’aumentata coesione sociale.