Escalation Israele-Palestina: 12 grafici per capire come siamo arrivati fin qui – a cura di ISPI

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L’escalation tra Gaza e Israele non accenna a diminuire d’intensità: ripercorriamo i passsaggi storici che hanno portato alla situazione attuale.
L’articolo è a cura dell’Osservatorio MENA ISPIMichele BertelliBenedetta ObertiFrancesco Petronella

La mattina del 7 ottobre un attacco di Hamas è stato lanciato dalla Striscia di Gaza cogliendo di sorpresa Israele, nel pieno dei festeggiamenti della settimana di Sukkot (o festa dei tabernacoli). Mentre molti ebrei di Israele si recavano alle sinagoghe per festeggiare la Simchat Torah (in ebraico “Gioia della Torah”), festa conclusiva della Sukkotmigliaia di razzi da Gaza venivano lanciati verso le regioni del centro e del sud di Israele. Allo stesso tempo, miliziani del gruppo palestinese islamico oltrepassavano il confine israeliano dalla Striscia di Gaza per dare inizio a un’operazione di terra e prendere il controllo di alcune località nel sud del paese. L’operazione di Hamas, giustificata dal gruppo a causa della crescente violenza dei coloni degli ultimi mesi e della recente violazione del complesso di Al-Aqsa – terzo luogo sacro per l’islam dopo Mecca e Medina ma sacro anche per gli ebrei in quanto Monte del Tempio – ha causato la morte di almeno 700 israeliani e migliaia di feriti. L’escalation tra Hamas e Israele è stata descritta come la più violenta degli ultimi anni e paragonata alla guerra alla guerra dello Yom Kippur (o guerra di ottobre): iniziata il 6 ottobre 1973 durante i festeggiamenti del Kippur. Fu un’operazione militare congiunta organizzata da Egitto e Siria che colse di sorpresa Israele. L’operazione portata avanti da Hamas ha avuto inizio a un giorno dal cinquantesimo anniversario della guerra del ‘73.

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Il governo israeliano, tuttavia, si è prontamente riunito per rispondere alla crisi e mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu dichiarava che quella scatenata da Hamas è una guerra che Israele vincerà, il governo ha dato il via all’operazione aerea dal nome “Spade di ferro” sopra i cieli di Gaza. Decine di aerei hanno quindi preso il volo e colpito la Striscia nel tentativo di colpire obiettivi militari di Hamas. Seppur non si sappia ancora quante siano le vittime dei bombardamenti su Gaza è inevitabile che tra i morti negli attacchi israeliani vi sarà un cospicuo numero di civili. Nel frattempo, mentre proseguono i bombardamenti sulla Striscia, continuano anche gli scontri tra membri di Hamas e le Forze di difesa israeliane in diverse località israeliane. Mentre prontamente sono giunte le condanne da parte della comunità internazionale, la polizia israeliana ha dichiarato che gli scontri coi miliziani dureranno giorni e Hamas ha chiesto il sostegno da parte dei palestinesi in Israele e residenti in Cisgiordania, questi ultimi infatti già recentemente avevano alzato il livello di tensione con Israele.

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Cos’è la striscia di Gaza e chi la governa

La striscia di Gaza è una regione costiera di 360km2 popolata da più di 2 milioni di persone, di cui oltre 1 milione e 400mila con lo status di rifugiati. Dal 1967 fino al 2005, anche questa zona è stata occupata militarmente da Israele. Nel 2007, due anni dopo il ritiro israeliano, Hamas ha preso il controllo della Striscia e da allora Israele continua a operare un blocco, ovvero la chiusura quasi totale dei valichi di frontiera e degli accessi via mare e aerei, che dura tutt’ora. Oggi a Gaza oltre l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari, mentre il tasso di disoccupazione sfiora il 50%. A causa delle continue chiusure dei valichi d’accesso, da parte israeliana, le poche imprese che si dedicano alla produzione di beni di prima necessità lavorano a intermittenza. La chiusura dei valichi di frontiera ha reso poi ancora più difficile la crescita economica di Gaza e la ricostruzione dopo la devastazione provocata dagli interventi militari israeliani degli ultimi anni.

L’operazione israeliana in Cisgiordania

Sull’altro fronte della Palestina infatti, il 4 luglio, le truppe israeliane avevano messo in atto una caccia all’uomo nella città di Jenin, sequestrando anche materiale esplosivo e munizioni, dopo che bulldozer militari avevano sfondato diversi vicoli e migliaia di residenti sono fuggiti in cerca di riparo. Lo stesso giorno a Nord di Tel Aviv otto persone erano rimaste ferite in un attentato condotto da un furgone uscito di strada che travolse alcuni passanti. in quell’occasione il movimento islamico palestinese Hamas aveva elogiato l’attacco, definendolo “la prima risposta ai crimini dell’occupazione contro il nostro popolo a Jenin”.

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Stando al ministero della Salute di Ramallah il bilancio delle vittime palestinesi nel blitz su Jenin è stato di 12 morti e ha causato la fuga dal campo profughi di circa 4.000 palestinesi. Sempre in quell’occasione le forze aeree israeliane bombardarono due postazioni nella Striscia di Gaza, in risposta al lancio di almeno cinque razzi, tutti intercettati dal sistema di difesa Iron Dome, dall’enclave costiera palestinese. L’escalation iniziata il 7 ottobre arriva dunque al culmine di un processo di inasprimento delle tensioni. Il 2022 è stato l’anno più sanguinoso per i palestinesi della Cisgiordania dalla fine della Seconda intifada (2000-2005). Il 2023 sembra destinato a battere questo macabro record.

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In occasione dell’offensiva di luglio su Jenin, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha annunciato la sospensione del coordinamento con Israele per quello che riguarda la sicurezza e lo scambio di informazioni. Si tratta di una mossa che la leadership di Ramallah compie puntualmente in caso di escalation ma che poi ritira nel momento in cui la crisi sembra rientrata. Il numero crescente di insediamenti israeliani, la presenza di check-point e posti di blocco e la suddivisione in aree per il controllo militare e civile fra Israele e Anp danno alla Cisgiordania le sembianze di un arcipelago, in cui la continuità territoriale è completamente frammentata.

Tensione in Israele: proteste per la riforma voluta da Netanyahu

A complicare ulteriormente la situazione politica vi è stata anche la crescente tensione interna di Israele, complice dell’esacerbazione delle violenze. A fine dicembre 2022 si è ufficialmente insediato l’ennesimo governo guidato Benjamin Netanyahu, dopo che la coalizione di destra di cui fa parte il suo partito, il Likud, aveva vinto le elezioni parlamentari ottenendo 65 seggi su 120. Quello di Netanyahu è il governo più di destra della storia dello Stato ebraico: i partiti che ne fanno parte difendono posizioni conservatrici e ultraortodosse e contestano l’idea della “soluzione a due Stati” per il conflitto israelo-palestinese – una formula che vorrebbe l’istituzione di uno stato palestinese in Cisgiordania.

Fra le prime decisioni dell’esecutivo di Netanyahu ci sono state la legalizzazione di nove colonie israeliane in Cisgiordania e l’approvazione della costruzione di nuove colonie. La comunità internazionale denuncia come illegali le colonie israeliane nei territori palestinesi e le ritiene il principale ostacolo per il raggiungimento della pace. Inoltre, il parlamento ha approvato una legge per revocare la cittadinanza o il permesso di residenza non solo a tutti coloro che sono condannati per terrorismo, ma anche a chi riceve sostegno pecuniario dall’Autorità nazionale palestinese.

Un po’ di storia: come nasce l’idea di Israele

Per capire l’origine del conflitto israelo-palestinese bisogna fare un passo indietro risalendo alla fine del XIX secolo quando, sulla spinta dei nazionalismi europei e in risposta all’acuirsi dell’antisemitismo, il giornalista ungherese-austriaco Theodor Herzl elaborò l’ideologiea del Sionismo, un movimento politico che rivendicava il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, ipotizzando la Palestina e l’Argentina come possibili destinazioni per l’insediamento dei coloni. Fu la connessione culturale e religiosa con Gerusalemme che spinse il movimento sionista a optare infine per la Palestina, all’epoca definita comunemente come l’area geografica delimitata a ovest dal Mar Mediterraneo e a est dal fiume Giordano. Anche se la migrazione di ebrei europei verso questo territorio era cominciata già alla fine del ‘800, il fenomeno divenne più consistente con la fine della Prima guerra mondiale, dopo che gli inglesi riuscirono a sottrarlo all’Impero ottomano. Le rivendicazioni del movimento sionista trassero forza dalla “Dichiarazione Balfour”, ovvero il contenuto di una lettera che nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour scrisse a lord Lionel Walter Rothschild, sionista e membro di spicco della comunità ebraica inglese, nella quale il governo di Sua Maestà affermava il suo supporto alla creazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina.

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Alla fine del conflitto, i paesi vincitori decisero di spartirsi le province arabe dell’Impero ottomano. Alla Conferenza di Sanremo del 1920 il territorio della Palestina, assieme a quelli degli attuali Iraq e Giordania, fu affidato alla Gran Bretagna, mentre i territori corrispondenti all’attuale Siria e Libano passarono sotto il controllo della Francia. La presenza di Londra e Parigi in questa regione fu poi istituzionalizzata dalla Società delle Nazioni – nucleo di quelle che poi saranno le Nazioni Unite – con la creazione dei Mandati. Si trattava di un sistema con cui le potenze coloniali si impegnavano ad amministrare questi territori e ad accompagnarli nel percorso verso l’indipendenza. Ma il conferimento del Mandato di Palestina alla Gran Bretagna, potenza che aveva dichiarato pubblicamente di voler facilitare l’immigrazione degli ebrei europei in quel territorio, fu mal accolta dalla popolazione locale. Gli anni del Mandato furono infatti segnati dallo scoppio di regolari moti di protesta, spesso caratterizzati da episodi di violenza contro gli inglesi e la comunità ebraica, rinvigorita anno dopo anno dall’arrivo di nuovi migranti. Questi finirono per cambiare l’assetto demografico della Palestina: se nel 1922 gli ebrei rappresentavano l’11% della popolazione, il loro numero raggiunse il 32% nel 1947 (e questo malgrado la crescita della popolazione araba, raddoppiata nello stesso periodo).

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Il secondo conflitto mondiale ha rappresentato una netta cesura per il sistema coloniale inglese e per la Palestina. Spinta dalle necessità economiche della ricostruzione post-bellica e dalla complessità della situazione sul campo, Londra decise di rimettere il Mandato alle Nazioni Unite, che intanto avevano sostituito la Società delle Nazioni, e di lasciare a loro la decisione sul futuro della regione. Nel novembre 1947, l’Assemblea generale dell’ONU approvò una risoluzione (la numero 181) che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo, e che affidava Gerusalemme a una giurisdizione internazionale. Questa decisione fu accolta positivamente dalla comunità ebraica ma rigettata da quella araba, che dopo essersi opposta per anni all’immigrazione di massa di ebrei europei, rifiutava la possibilità che questi ottenessero uno stato indipendente. A quel punto le relazioni tra ebrei e arabi degenerarono, sfociando dapprima in guerriglia e poi, con la fine ufficiale del Mandato e la partenza degli inglesi, in un vero e proprio conflitto armato. Il 15 maggio 1948, a seguito della Dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq decisero di attaccare, dando il via alla prima guerra arabo-israeliana.

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Al termine del conflitto, che si risolse nel 1949 con la sconfitta degli eserciti arabi, i confini del neonato stato di Israele comprendevano circa il 78% del territorio della Palestina mandataria. Rimanevano fuori dal suo controllo la Cisgiordania (o “West Bank”, dato che si trova a ovest del fiume giordano) e la cosiddetta Striscia di Gaza, occupate rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto. Durante il conflitto, inoltre, circa 700mila palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, in parte per paura della guerra e in parte perché minacciati dall’esercito israeliano. Quest’esodo forzato (conosciuto in arabo come Al-Nakbah, la catastrofe) è all’origine della questione dei rifugiati palestinesi, uno dei principali punti irrisolti del conflitto.

Nei tre decenni successivi alla sua fondazione, il rapporto tra Israele e gli stati arabi rimase profondamente conflittuale, e a quella del 1948-49 seguirono altre guerre. La più importante di queste è sicuramente quella del 1967, ribattezzata “Guerra dei sei giorni”, appunto perché nell’arco di meno di una settimana l’esercito israeliano riuscì a sconfiggere quelli dell’Egitto, Giordania e Siria. Questa sorprendente vittoria permise a Israele di occupare nuovi territori, tra cui la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, inclusa quella parte di Gerusalemme che era stata controllata fino ad allora dai giordani.

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L’OLP, Hamas, la Prima Intifada e gli Accordi di Oslo

È appunto la sconfitta degli eserciti arabi nel 1967 a spingere i palestinesi verso un maggiore attivismo politico. Quelli tra la fine dei ’60 e l’inizio degli ’80 furono infatti anni caratterizzati dall’ascesa di gruppi e partiti palestinesi che con mezzi politici e militari cercavano di dare risposta alle proprie aspirazioni nazionali. Negli anni ’60 la maggior parte di questi gruppi confluì nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una struttura che voleva rappresentare un cappello politico per i partiti e gruppi armati palestinesi attivi nei Territori e nella diaspora. L’OLP divenne così il principale megafono delle istanze palestinesi nel mondo. Tuttavia, nel 1982 i quadri dell’organizzazione furono costretti ad abbandonare il Libano, una dei principali destinazioni per i profughi palestinesi, che sarà dilaniato dalla guerra civile proprio in quel decennio. L’OLP trovò asilo in Tunisia, troppo distante dai Territor. Questo finì per segnare il declino dell’organizzazione.

Esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie aspirazioni nazionali, nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania cominciarono una serie di proteste contro l’occupazione israeliana. Questi atti assunsero presto le dimensioni di une vera e propria sollevazione popolare – la Prima Intifada – che si protrasse fino al 1993 e portò alla morte di più di 1900 palestinesi e di 200 israeliani. È in questi anni di proteste e di duri scontri che nacque il Movimento della Resistenza Islamica (Hamas), un’organizzazione di stampo islamista, nata da una costola della Fratellanza Musulmana e caratterizzata fin da subito dalla sua intransigenza nei confronti di Israele.

È negli anni dell’intifada che le posizioni delle leadership palestinese e israeliana si avvicinano per la prima volta. Tra il 1993 e il 1995 vennero siglati gli Accordi di Oslo che, sulla base della soluzione a due stati, avrebbero dovuto rappresentare il primo passo verso la costruzione di uno stato palestinese indipendente. Si deve a questi accordi la divisione dei Territori palestinesi in tre aree (A, B e C) e la creazione di un’amministrazione autonoma, l’Autorità nazionale palestinese (ANP), che sull’area A e B esercitava un certo grado di sovranità. L’ascesa per la prima volta al governo in Israele di Netanyahu nel 1996, assieme ad altri fattori, finì però per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli Accordi e, di conseguenza, per assestare un duro colpo al processo di pace.

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Dalla Seconda Intifada agli accordi di Abramo

Lo stallo nei negoziati contribuì a infiammare nuovamente i Territori palestinesi tra il 2000 e il 2005 con lo scoppio della Seconda Intifada. Rispetto alla prima, questa fu molto più violenta e portò alla morte di quasi cinquemila palestinesi e più di mille israeliani. Nel 2002, nel pieno della sollevazione popolare palestinese, Israele cominciò la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania. L’obiettivo dichiarato era quello di controllare gli spostamenti per impedire l’organizzazione di attacchi terroristici a danno della popolazione israeliana. Il tracciato del muro non rispettava però la Linea Verde (stabilita nel 1949 fra Israele e il regno di Giordania), discostandosi in alcuni casi di decine di chilometri. Secondo le autorità israeliane lo scopo del muro era quello di contribuire alla sicurezza del paese. La sua costruzione ha avuto, e continua ad avere, un impatto negativo sulla vita dei palestinesi. Secondo un report delle Nazioni Unite “il muro separa fra di loro comunità e impedisce l’accesso delle persone ai servizi nonché a strutture religiose, culturali e ai mezzi di sussistenza”. Da allora la situazione nei Territori palestinesi non ha fatto altro che peggiorare. Israele continua a mantenere una consistente presenza militare in Cisgiordania, dove negli ultimi vent’anni ha anche accelerato la sua politica di espansione delle colonie, città e insediamenti israeliani in territorio palestinese, ritenuti illegali dalla comunità internazionale.

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A dispetto del peggioramento della situazione nei Territori, negli ultimi anni i rapporti tra Israele e gli altri paesi della regione sono sensibilmente migliorati. Risale al 2020, infatti, la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo, ovvero gli accordi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco (oltre che il Sudan). Negli ultimi tre anni, l’interscambio tra questi paesi e Israele è cresciuto notevolmente, ma una soluzione al conflitto israelo-palestinese, che le parti nell’Accordo si impegnavano a promuovere, rimane ancora lontana.

Chi sono i coloni israeliani

Le colonie sono insediamenti israeliani, e in molti casi vere e proprie città, costruiti nei territori palestinesi occupati, autorizzati e spesso finanziati dal governo israeliano. Nonostante siano considerate illegali dal diritto internazionale, il numero di colonie è andato via via crescendo nel corso degli anni. Oggi le colonie sono presenti in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est), e nelle alture del Golan, ampiamente considerate a livello internazionale come parte del territorio siriano. Gerusalemme Est e le alture del Golan sono state annesse da Israele, anche se la comunità internazionale ha respinto tale decisione.  A oggi ci sono più di cento insediamenti israeliani in Cisgiordania, per un totale di oltre 450mila coloni, a cui si sommano altri 220mila coloni residenti a Gerusalemme Est. Inoltre, più di 20mila cittadini israeliani vivono in insediamenti sulle alture del Golan.

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Lo status di Gerusalemme

L’importanza di Gerusalemme risiede tutta nella sua storia. Questa città, spesso definita “tre volte santa”, è infatti estremamente importante per ebrei, cristiani e musulmani dato che vi si trovano alcuni dei luoghi santi per eccellenza di tutte e tre le religioni monoteiste. All’interno della Città Vecchia di Gerusalemme sono infatti ubicati sia il Monte del Tempio e il Muro del Pianto sacri per gli ebrei, sia la moschea al-Aqsa, terzo sito religioso più importante per i musulmani, e la basilica del Santo Sepolcro, luogo di sepoltura di Gesù. Il piano di spartizione ONU del 1947 prevedeva che Gerusalemme venisse posta sotto tutela internazionale. La linea dell’armistizio del 1949 finì per dividere la città in una parte ovest, controllata da Israele, e una parte est, controllata inizialmente dalla Giordania. Nella Guerra dei sei giorni del 1967 Israele riuscì a conquistare Gerusalemme Est (così come il resto della Cisgiordania), per poi annettere questa parte della città nel 1980.

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Da allora Israele ha cercato di modificare la composizione demografica di questa parte della città, portando avanti una politica di sgombero e abbattimento delle abitazioni palestinesi e di insediamento di cittadini israeliani nell’area. I palestinesi, di contro, cercano di salvaguardare la loro presenza in questa porzione di città. Nel 2017, l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e altri Paesi ne hanno seguito l’esempio nei mesi successivi. Nel 2018 l’ambasciata Usa nel paese è stata trasferita a Gerusalemme da Tel Aviv.

Perché i palestinesi sono la seconda popolazione di rifugiati al mondo?

La questione dei rifugiati palestinesi risale alla Nakbah, ovvero l’esodo forzato di circa 700mila arabi palestinesi durante la guerra del 1948-49. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) definisce “rifugiato palestinese” una persona “il cui normale luogo di residenza è stata la Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del 1948”.

Oggi i rifugiati palestinesi sono quasi sei milioni e sono dislocati in tutta la regione e non solo. Oltre un terzo vive in campi profughi in GiordaniaLibanoSiriaCisgiordania, nella striscia di Gaza e a Gerusalemme Est. Ad oggi l’unico stato ad averli pienamente integrati e ad aver loro riconosciuto pieni diritti di cittadinanza è la Giordania. La questione dei rifugiati è inoltre uno degli ostacoli a ogni soluzione negoziale al conflitto: la risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’ONU sanciva infatti il loro diritto al ritorno nei territori del Mandato di Palestina. 

La questione del diritto al ritorno non è però mai stata affrontata in sede negoziale. Israele, infatti, teme il ritorno dei palestinesi poiché modificherebbero la demografia dello stato, aumentandone radicalmente la popolazione araba e diminuendo in percentuale quella ebraica. Ciò aumenterebbe verosimilmente il supporto politico verso i partiti arabi presenti nel parlamento israeliano. che rappresentano gli arabi di nazionalità palestinese e cittadinanza israeliana.

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Perché si parla di soluzione a due stati e perché non è stata ancora attuata

Prevede la creazione di due stati: uno israeliano e uno palestinese. Si tratta di una soluzione di compromesso che per anni è stata privilegiata a livello internazionale ed è stata preferita all’idea della nascita di un solo stato binazionale o al conferire il controllo dei territori palestinesi alla monarchia giordana.

Oggi, però, questa soluzione è sempre più contestata: tra i palestinesi sono aumentati notevolmente coloro che la reputano impraticabile a causa delle colonie israeliane. La postura israeliana, infatti, ha causato un irrigidimento nell’opinione pubblica palestinese che risulta sempre meno disposta a scendere a compromessi. Anche da parte israeliana la fiducia nell’attuazione di questa soluzione è diminuita, nonostante sia ancora condivisa dalla maggioranza della popolazione. La leadership israeliana sembra tuttavia non essere più disposta a sostenerla, portando avanti invece un progetto di annessione progressiva dei territori palestinesi.

Cosa fanno Unione Europea e Stati Uniti per risolvere la questione

Gli Stati Uniti hanno progressivamente assunto un ruolo di mediazione tra le parti: in occasione della crisi di Suez (1956) e della guerra dello Yom Kippur (1973), Washington chiese e ottenne il ritiro israeliano per porre fine alle azioni militari. Sempre gli Stati Uniti favorirono tutti i processi di normalizzazione tra Israele e i paesi arabi. La politica statunitense però ha avuto spesso un occhio di riguardo per Israele. Questa posizione ha di fatto reso Washington sempre meno imparziale agli occhi dei palestinesi, che oggi vedono gli Usa come il principale sponsor delle politiche di Tel Aviv.

Rispetto agli Stati Uniti, l’Unione europea ha giocato un ruolo meno prominente nei colloqui di pace. Oggi, però, l’UE è il principale partner internazionale dell’Anp, a cui fornisce da anni sostegno finanziario. Dalla fondazione dell’Autorità palestinese l’UE ha investito alcuni miliardi di euro per rispondere alla crisi umanitaria di Gaza e rafforzare la democrazia e la resilienza dei Territori palestinesi. Tuttavia, la crisi di legittimità che l’Autorità palestinese sta vivendo in questo periodo, così come le politiche del governo israeliano, hanno reso questo compito ancora più arduo. Ad aprile 2021, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha annunciato il rinvio il rinvio delle elezioni previste per il mese successivo fino a quando non sarà “possibile votare anche a Gerusalemme est”. Si tratta di fatto di un rinvio sine die, che testimonia lo scollamento fra la popolazione palestinese, costituita soprattutto da giovani, e una vecchia leadership che non si misura con il consenso elettorale ormai dal 2006.

*** https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/escalation-israele-palestina-12-grafici-per-capire-come-siamo-arrivati-fin-qui-126406

Questo articolo è a cura dell’Osservatorio MENA ISPIMichele BertelliBenedetta ObertiFrancesco Petronella

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