La risposta nonviolenta ai conflitti armati

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Di Raffaele Barbiero, Centro per la pace di Forlì

La principale osservazione fatta quando si introduce il tema della risposta nonviolenta ai conflitti armati è: siete anime belle, ma queste cose funzionano solo in tempo di pace, o non è semplice organizzare una società che si para inerme davanti ai carri armati (dando alla nonviolenza per acquisito il sinonimo di non azione, di nudità di fronte ad un pericolo violento, o di speranza che l’avversario del momento sia di buon cuore).

Facciamo alcune premesse e diamo alcuni numeri per capire un po’ di più la questione.

La difesa armata, oltre che essere praticata da sempre, si insegna anche istituzionalmente da secoli: solo per stare in Italia e solo per citarne alcune vi ricordiamo l’Accademia militare di Modena attiva dal 1678, la Scuola militare Nunziatella di Napoli dal 1787, la Scuola militare Teulie di Milano dal 1802, la Scuola militare di Cecchignola (Roma) dal 1920 e, per stare al passo con i tempi, anche la Scuola militare aeronautica di Firenze dal 2006.

Per la guerra e per il bilancio della difesa in Italia si spendono annualmente 25 miliardi di euro (escluso il finanziamento delle cosiddette “missioni di pace” o di piani di ammodernamento straordinari delle nostre Forze Armate) e sull’onda della guerra fra Russia (aggressore) e Ucraina (aggredito) il 16 marzo 2022 la Camera dei Deputati ha impegnato il governo ad alzare il bilancio di altri 13 miliardi (più del 50% di aumento, mentre sanità e scuola subiscono ancora tagli).

Nel campo militare gli addetti alle Forze Armate sono più di 90.000 persone, che vengono regolarmente stipendiate, addestrate e assicurate e che, se non vanno direttamente in pensione come militari di carriera, ma lasciano anticipatamente le Forze Armate, possono accedere ad altri corpi dello Stato, perché godono di corsie privilegiate.

La nonviolenza nel mondo, come pratica operativa di soluzione dei conflitti, è stata sistematizzata e codificata in manuali di apprendimento ed azione solo da Gandhi in poi (quindi dagli inizi del ‘900); in Italia non esistono di fatto scuole, accademie, istituti per insegnarla, molto più presenti all’estero invece, specialmente dentro il mondo accademico anglosassone (esemplare è la trilogia di Gene Sharp, “Politica dell’Azione Nonviolenta” volume I -potere e lotta-, II -le tecniche- e III -la dinamica-, edito in Italia da EGA, 1985-1986; il manuale “Handbook for nonviolent Campaigns” edito da War Resister’s International, 2010-2011; “Working with conflict” di Simon Fisher e altri autori (skills and strategies for action), Zed Books, 2000.

Per la nonviolenza non si spende ufficialmente neanche un euro e nessuno è impiegato, stipendiato, assicurato, addestrato appositamente per questo.

Tutto quello che si muove in questo campo o è frutto del volontariato, o è legato all’applicazione del Servizio civile nazionale (purtroppo ultimamente sempre più orientato ad essere una modalità occupazionale aggiuntiva o di “parcheggio”), o deriva da interventi sporadici dello Stato (vedi finanziamento a missioni di pace di associazioni o realtà della società civile) o di Enti Locali e Istituzioni universitarie lungimiranti.

Questa è la fotografia della situazione e in questa situazione, quando ci si trova di fronte alla domanda: “Accetti un’ingiustizia, un’aggressione, una violenza o reagisci ad essa?” l’unica risposta possibile e ammessa (anche a livello di informazione di massa) è quella armata e violenta, perché come dice la canzone di De Andrè: “La guerra di Piero”, se tu non spari per primo finisci a dormire in un campo di grano.

Se si vuole veramente rispondere con le metodologie della nonviolenza, non si deve improvvisare e bisogna subito investire risorse economiche ed umane per rendere concreta questa alternativa, che richiede necessariamente studio, sperimentazione e formazione.
Dove si possono impegnare queste risorse economiche ed umane ?

Nel Parlamento Europeo dal 1994 vi è la proposta avanzata da Alexander Langer di istituire i Corpi Civili di Pace Europei, proposta che fu poi approvata con una risoluzione del Parlamento Europeo nel 1999 e a cui venne dato corpo con due studi di fattibilità realizzati nel 2004 e nel 2005 – Feasibility Study on the establishment of a European Civil Peace Corps (ECPC), Final report 29.11.2005, Channel Research. Da allora però tutto tace e solo la Repubblica di San Marino, con la legge 2.12.2021 n.194, ha recentemente istituito i Corpi Civili di Pace.

Nel Parlamento Italiano dal 2017 vi è la proposta di legge di iniziativa popolare per istituire il “Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta” che prevede la creazione di un contingente da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto, o a rischio conflitto, o nelle aree di emergenza ambientale e che prevede anche la creazione dell’Istituto di ricerca sulla Pace e il Disarmo.

La nonviolenza funziona ? Se guardiamo gli esempi storici, laddove ha operato anche in condizioni di difficoltà (al di là dell’India con Gandhi; Danimarca e Norvegia durante la seconda guerra mondiale; Cecoslovacchia durante la cosiddetta guerra fredda, ecc.), ha funzionato anche se solo parzialmente. Dobbiamo comunque tenere presente che in questi esempi, tranne l’India, nessuno era preparato ed organizzato per farlo e ci si è arrivati solo perché in quel momento era l’unica strategia disponibile, o perché si è ritenuto che lo fosse. D’altronde le guerre che si sono succedute nel mondo dal 1991 in poi hanno forse risolto i problemi emersi dai conflitti?

A livello mondiale, a partire dalla Guerra nel Golfo del 1991, vi è poi la richiesta di modificare il diritto di veto all’ONU, diritto che, appartenendo a cinque nazioni, impedisce di fatto l’azione di pace e di mediazione nel conflitto (anche con la modalità armata che l’ONU potrebbe esercitare).

Vi è anche la richiesta al nostro Governo di firmare il “Trattato di proibizione delle armi nucleari” (TPAN) dell’ONU, entrato in vigore il 22 gennaio 2021, che invece i nove Paesi che posseggono l’armamento atomico e quelli collegati all’Alleanza Atlantica (NATO) non hanno firmato.

Il percorso è sicuramente ancora lungo e la nonviolenza, anche se attuata, dovrà coesistere con la risposta armata degli eserciti (ma magari in modalità difensiva e non offensiva -vedi per es. gli F35 che possono portare armamento atomico-), ma se non si investe SUBITO neanche un euro, sicuramente saremo condannati alla violenza di una prossima guerra che verrà e il dibattito si dividerà ancora fra pacifisti pavidi e/o collaborazionisti e guerrafondai, o militaristi da tastiera o da divano.

Un dibattito che non solo non mi interessa, ma che non tenta in nessun modo di ridurre la violenza nel mondo, per quello che già oggi potremmo tutti fare.

Raffaele Barbiero
Centro per la pace di Forlì

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